Cari lettori,
frequentando una facoltà che tratta di comunicazione (Editoria e Pubblicistica presso
l’Università degli Studi di Salerno) ho l’onore e il piacere di studiare materie come Storia del Cinema e il manuale
di quest’esame (Introduzione alla Storia del Cinema, a cura di P. Bertetto ), ha
un intero capitolo dedicato al cinema d’autore giapponese, così ho deciso di
scriverne un articolo per il blog visto che è un argomento assai affascinante e
per certi versi poco conosciuto al grande pubblico.
L’ industria cinematografica giapponese,
sviluppatasi nel secondo dopoguerra, a modello dell’industria hollywoodiana,
ha saputo creare dei veri e propri generi e così, per facilità di
classificazione ve li elenchiamo:
lo Jidaigeki, genere di film ambientato nel passato. Un suo sottogenere caratteristico è
considerato lo jidaigechi chanbara, ovvero film sui samurai pieni di scene
d’azione, di duelli e di spade.
Lo Gedaigeki, genere di film ambientato nell’epoca
contemporanea. Gli shomingeki (lett.
drammi della gente comune),dedicati alla piccola borghesia, alle cose di tutti
i giorni e alla vita familiare, sono un suo sottogenere.
Il cinema d’autore giapponese, primo fra le
cinematografie non occidentali, ha così saputo
imporre una propria estetica grazie ad autori come Kurosawa, Ozu e Mizoguchi, considerati veri e propri maestri, che a
loro volta, hanno ispirato il cinema occidentale e la nouvelle vague in
particolare.
Su questi grandi
maestri mi soffermerò indicandone i film culto che hanno lasciato una
forte impronta nella storia del cinema.
Iniziamo da Yasujiro Ozu, nato a Tokyo nel 1903, all’età di vent’anni entra negli studi della Shochiku, una delle prime casa di produzione giapponese a cui il regista rimarrà fedele per la vita. Ozu, ad eccezione del primo film girerà sempre shomingeki e proprio uno shomingeki è considerato il suo film capolavoro: Viaggio a Tokyo (1953). Il film tratta di un viaggio intrapeso da due genitori che vanno a trovare i loro figli nella grande città ma proprio i figli, ormai cresciuti e a loro volta genitori, presi dalle preoccupazioni quotidiane, segnano il definitivo distacco con i genitori. Il nucleo centrale del film è il dramma della separazione vista come qualcosa di ineluttabile della condizione umana, della mutevolezza dei sentimenti, di come niente rimane com’è ma bensì fluisce ( o meglio scorre come scorre il tempo). Dal punto di vista estetico il regista ricorre a delle costruzioni stilistiche come le pose parallele dei due coniugi anziani per simboleggiare l’armonia che vige tra di loro o di come rende lo scorrere del tempo fino a conferirgli un carattere astratto grazie all’aiuto dei suoni come il ticchettio dell’orologio, il battere del martello, il frinire delle cicale, il motore di un battello, lo sferragliare del treno (tutti con una precisa scansione ritmica).
Altro grande maestro del cinema giapponese è
sicuramente Kenji Mizoguchi, nato a
Tokyo nel 1898, che con la sua vastissima produzione ha spaziato sia nell’ambito
dei gendaigeki che nei jidaigeki. Il suo marchio di fabbrica, considerato il
tratto di modernità per eccellenza dal pubblico della nouvelle vague, è il
piano sequenza, ovvero un’inquadratura così lunga da svolgere il ruolo di
un’intera scena. Altra peculiarità del regista è la rappresentazione del mondo
femminile, trattato come vero e proprio oggetto di culto e di ammirazione. Tre
sono i modelli di donna che il regista rappresenta: la ribelle (che di solito
reagisce al sopruso di cui è vittima), la principessa ( l’aristocratica che
rimane, nonostante le difficoltà, di animo puro e incontaminato) e la
sacerdotessa (la donna che si sacrifica per amore fino ad annullarsi ). Il suo
film capolavoro, che gli ha permesso di raggiungere la visibilità e il
prestigio internazionale, è I racconti
della luna pallida d’agosto (1953), film in costume ambientato nel XVI sec. (quindi un jidaigeki). La storia ruota
intorno a Genjurò, un artigiano vasaio, che abbandona la moglie, Miyagi, perché
ammaliato da un’affascinante aristocratica, Wasaka, che in realtà si rivelerà
essere un fantasma. Scoperta la verità, Genjurò ritorna dalla moglie ma scopre
che anch’essa è divenuta un fantasma ,uccisa da dei mercenari. Miyagi
tuttavia rimarrà a fianco del marito per
sempre mentre lui riprenderà la sua attività lavorativa. Il film è innanzitutto
un tributo all’Arte: Genjurò ,dapprima, è
spinto solo dal desiderio del facile guadagno, poi da Wasaka diviene l’artista chiuso nella propria torre
d’avorio e infine, sotto la guida di Miyagi, scopre l’arte come espressione del proprio vissuto.
Ultimo (ma non ultimo in ordine di importanza)
grande maestro è Akira Kurosawa, nato a Tokyo nel 1910, che spazia (come
Mizoguchi) tra jidaigeki e gendaigeki e che racconta storie di uomini in
caparbia lotta contro i mali e le
ingiustizie della società. I suoi eroi
sono positivi ma complessi, perché
spinti da una forza quasi irrazionale che in alcuni frangenti si manifesta in atteggiamenti oscuri e ambigui. Kurosawa
si differenzia, oltretutto, grazie ad uno stile spettacolare e a un ritmo più
sostenuto, espressione dell’influenza del cinema occidentale ma allo stesso
tempo conserva anche influenze tipiche
del teatro tradizionale giapponese : dal Nò riprende gli effetti di sacralizzazione,
stilizzazione e narrazione ellittica mentre dal Kabuki riprende i toni ironici
e gli effetti comico-burleschi. Nel 1951 presenta al Festival del cinema di Venezia Rashomon, film tratto da due racconti di
Akutagawa, che racconta la storia della violenza perpetuata da un bandito nei confronti di una
donna in viaggio con il suo uomo, un nobile samurai. La caratteristica del
film è che gli episodi chiave come quello dello stupro o quello della morte del
samurai, sono rappresentati più volte attraverso il racconto dei personaggi che
hanno assistito o preso parte alla scena. Le diverse versioni sono contrastanti
tra loro e il film non offre alcuna soluzione agli enigmi posti, dimostrando
che, come ogni individuo cerchi sempre di dare l’immagine della realtà che più
gli conviene, non c’è possibilità di cogliere la verità dei fatti. Dal punto di
vista estetico il film è caratterizzato dall’uso congiunto di profondità di
campo (ovvero l’inquadratura mette a fuoco tutto ciò che è in scena) e di
montaggio.
Rosa-chan
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